I MESI DIPINTI

Sulla scia dell’interesse innescato anni fa da alcuni nostri concittadini verso il pittore Antonio da Tradate[1], approfondisco  un tema, quello dei mesi, che lui affrontò in due occasioni e che a noi offre lo spunto per conoscere diverse situazioni inerenti lo stato dell’arte in Lombardia tra il ‘400 ed il ‘500.

L’argomento ci consente innanzitutto di collegarci al tema del cibo, diretta conseguenza dei lavori agricoli, che sono il soggetto principale nelle raffigurazioni dei mesi collocati soprattutto nelle chiese, almeno nel periodo medioevale, per poi approdare nei palazzi del Rinascimento.

Nella nostra zona  gli esempi riferiti a questa tipologia raffigurativa sono limitati alla chiesa di S Michele sita nel territorio di Gornate sup., a quelle di S. Silvestro a Meride (in entrambi i casi l’unico mese sopravvissuto è Gennaio), di S. Giorgio a Brissago Valtravaglia , di S. Antonio a Cadegliano Viconago ,  di S. Maria dei Ghirli a Campione d’Italia e, infine, alla chiesa di S. Giacomo a Jerago (questi cicli non ci sono però giunti integri). A questi riferimenti potrebbero essere aggiunti i 12 arazzi Trivulzio di Milano, essi tuttavia, sebbene siano praticamente coevi con gli esempi sopra citati, sono stati realizzati con finalità particolari che li rendono a loro difficilmente accostabili. Non mancheranno comunque i riferimenti e gli accostamenti, quando saranno possibili. Per vedere esempi completi, o quasi, è necessario ricorrere a cicli più lontani, ma dovendoci limitare alla nostra zona il collegamento d’obbligo è dato dal già citato Antonio da Tradate, pittore operante tra ‘400 e ‘500.

Per conoscere il nostro artista si rimanda al libro scritto da Lara Broggi e pubblicato da Macchione nel 2012; a questo si è aggiuntonel 2015 il lavoro di Renzo Dionigi per Nomos Edizioni, relativo soprattutto agli affreschi di Palagnedra. Il fatto di voler trattare l’artista tradateseè motivato dalla semplice ragione che nei suoi lavori ha sì cercato di soddisfare i committenti dei luoghi dove ha operato (l’attuale Canton Ticino), senza però dimenticare la sua terra d’origine.

Entrando ora nel merito della questione, si precisa che i cicli presi in considerazione sono due: quello completo dipinto in S. Michele di Palagnedra e quello parziale realizzato in S. Martino a Ronco sopra Ascona. Si potrebbe prendere in considerazione anche quello di Maccagno,  ma  lo stato di conservazione  ne impedisce una corretta lettura.

Il tema dei “mesi” era ancora in voga tra ‘400 e ‘500 e il Nostro lo ha rappresentato tenendo conto della volontà dei committenti che, a loro volta, seguivano le tradizioni. E questo senza scomodare la classicità: infatti per Gennaio non è presente Giano bifronte né lo “spinario”[2] per Marzo. Invece una fonte è stato sicuramente Bonvesin da Riva[3]: ne è prova il mese di Agosto “malaticcio”, sconosciuto fuori dall’ambito lombardo, ma tuttavia presente a Roma nella cosiddetta Aula Gotica al Celio. Non ci sono elementi palesi per sostenere che il pittore abbia messo anche qualcosa di suo, però non lo si può escludere. Resta significativo a questo proposito il fatto che non si sappia se sia nato a Tradate o a Locarno (in quanto figlio di genitori provenienti dalla nostra città); infatti, se fosse nato e in parte vissuto nella cittadina da dove proviene, avrebbe potuto conoscere le opere di Masolino a Castiglione (ciò potrebbe spiegare perché a Palagnedra e Negrentino dipinge le montagne coniche, mentre a Ronco i committenti glielo avranno sconsigliato). Però, e questo ci farebbe propendere per Locarno, mostra di non conoscere neppure gli affreschi “classici” di Castelseprio, cosa che tuttavia vale anche per i suoi rivali, i pittori provenienti da Seregno (autori anche del ciclo di Mesocco). Visti i dubbi che ancora permangono, lasciamo pertanto aperta la questione anagrafica e ci concentriamo piuttosto sugli aspetti artistici della  produzione del nostro pittore.

I detrattori di Antonio sottolineano la diversità di stile trai dipinti del Nostro e quanto andava facendo Leonardo a Milano negli stessi anni: ovviamente Antonio soccombe davanti a un simile personaggio, ma il confronto è inaccettabile perché si tratta di due mondi diversi; si può invece tranquillamente paragonarlo con i citati da Seregno. Tuttavia nella pittura di Antonio da Tradate ed in quella leonardesca si possono rilevare alcuni elementi comuni:  in “S. Anna, la Vergine e il Bambino” e nella “Vergine delle rocce” Leonardo dipinge i personaggi vicini al bordo di un precipizio, come a segnare la distanza che c’è tra noi e loro; anche il Nostro fa la stessa cosa, anche se con risultati grafici differenti. Forse, visto che non è chiaro lo scopo di questo espediente, non ha neppure i medesimi obiettivi. Potrebbe anche esserci una spiegazione squisitamente artistica: in questo caso l’autore avrebbe voluto sottolineare come il dipingere non doveva essere  confuso con ciò che veniva rappresentato. Se così fosse, il pittore avrebbe anticipato quanto sosterrà Magritte nel famoso quadro “Questa non è una pipa”.  Gli esempi più antichi di questa modalità pittorica risalgono alla tradizione classica dei mosaici di Ravenna (scena del Buon Pastore nel mausoleo di Galla Placidia o nel catino absidale di S Vitale) e Roma (pareti della navata centrale a S. Maria Maggiore) filtrati da quelli visibili in S. Aquilino[4] a Milano e in S Abbondio a Como (Crocifissione). Ma anche Filippo Lippi dipinge nel 1456 una Natività con la medesima caratteristica, e il suo stile si fa risalire a Giotto (in S Francesco ad Assisi la scena del dono del mantello); infine il bordo del precipizio è presente anche nelle miniature dei tacuina sanitatis.[5]

Risulta comunque interessante la soluzione che Antonio adotta a Negrentino nella scena della Battaglia di Parabiago: per l’esterno utilizza il bordo del precipizio, per l’interno crea un gradino con i piedi dei santi Gervaso e Protaso (protettori di Parabiago) che sono a metà tra pavimento e il vuoto.  In conclusione rileviamo che la differenza tra Antonio e Leonardo risiede nel fatto che il primo si mantiene nel solco della tradizione, mentre il pittore-scienziato la rinnova.

Altro particolare da esaminare prima di entrare più a fondo nell’argomento è la presenza della cornice: ogni mese dipinto da Antonio è racchiuso da quella che a prima vista sembrerebbe una semplice cornice bidimensionale; ma a ben guardare essa è, a tutti gli effetti, una scatola vista in prospettiva. Ciò non significa che lui conoscesse il valore della prospettiva[6], probabilmente si tratta solo di un gioco ottico, come la pavimentazione in piastrelle bianche e nere; egli, quindi, non utilizza la prospettiva non perché non la conosce, ma perché non si addice ai suoi scopi. Del resto non utilizza neppure le ombre per dare fisicità ai personaggi e per collocarli nello spazio in cui vivono: insomma il Rinascimento è ancora circoscritto e limitato ad alcune città.

Nei suoi Mesi inoltre non ci sono contaminazioni astrologiche: non vi è infatti alcun cenno ai segni zodiacali, anche ridotti all’essenziale come in S Martino a Lucca; ciò significa che né lui, né i suoi committenti avevano conoscenze in merito, o volevano utilizzarle. Se invece fossero stati presenti e dipinti insieme avrebbero scandito il tempo cosmico e quello terreno. Evidentemente i principali attori e autori delle decorazioni realizzate nelle chiese che abbiamo sopra ricordato erano gente pratica, che voleva tramandare le proprie tradizioni e sacralizzarle collocandole nel luogo più significativo e sacro delle chiese stesse: il presbiterio.

Antonio da Tradate, Agosto in S. Michele a Palagnedra.

Come a Montecarasso  la scena di Gennaio sembra poco edificante e non c’è traccia apparente del lavoro: in realtà è la sintesi di un anno di lavoro, sebbene il personaggio non sia un contadino, ma un signore; del resto i contadini non erano ancora padroni della terra che lavoravano.  Comunque il personaggio sta mangiando da solo (a Padova e Perugia invece è in compagnia di moglie e figlio): una scelta compiuta dal pittore perché anche nelle altre formelle c’è una sola figura (escluso Luglio); il piccolo tavolo sta davanti al camino acceso  dato il clima del periodo e la tavola è imbandita (con più frugalità a Palagnedra). Oltre al cibo sul tavolo, frutto di quanto si è ricavato durante l’anno (il vino dall’uva, il pane dal grano ecc.) ci sono anche i salami appesi al soffitto per stagionare e la carne da affumicare (a Montecarasso il padrone non si cura se il cane gliene ruba un po’ e a Roma un topo circola indisturbato). Una conferma di questa pratica si ha nel battistero di Parma, dove Antelami si è soffermato ad illustrare tale procedura (altrimenti non si spiegherebbe il famoso prosciutto) e a Fidenza all’esterno dell’abside.  Non c’è nessun riferimento alla classicità attraverso la citazione di Giano bifronte, cosa che capita invece a Mesocco, a Gornate  e ad Otranto dove il personaggio si sta scaldando davanti al camino, mentre ad Aosta la scena raffigurata da Antonio è raffigurata a Febbraio perché Giano è il soggetto di Gennaio. Interessante la scelta operata a Fidenza, anziché scolpire Giano bifronte si vede un giovane che porta sulle spalle un anziano, ottenendo il medesimo effetto iconologico, e forse anche un riferimento alla storia antica, con Enea che porta il padre Anchise.

La potatura delle viti (o di alberi da frutta in genere) a Febbraio è un tema diffuso e sicuramente il Nostro avrà avuto modo di osservare la scena in vari luoghi tra cui alla Vignalunga di Tradate. Il ciclo del vino è ripreso a Settembre con la manutenzione delle botti; manca la vendemmia e la pigiatura dell’uva, non perché si sono dimenticati, ma è stata una scelta tra i vari argomenti possibili. Da rilevare la presenza di una botticella a terra qui e nel mese di Giugno: evidentemente serviva al contadino per dissetarsi; a Roma è appesa all’albero che divide i mesi di Febbraio e Gennaio, poi si rivede in Aprile; a Montecarasso il contadino di Febbraio ha una borraccia appesa alla cintura. Antonio dipinge il contadino mentre esegue la potatura con il coltello a roncola e dietro di lui si notano, a terra, i pali da utilizzare per il sostegno delle viti. A Montecarasso la vite è coltivata a pergolato poggiante su 4 pali posti agli angoli di un quadrilatero: il pergolato è presente anche a Ferrara in palazzo Schifanoia nel mese di Marzo, oltreché in diverse miniature. Negli arazzi Trivulzio la potatura degli alberi avviene a marzo, mentre per Febbraio è stato scelto un argomento di non facile comprensione: l’interpretazione corrente indica la volontà di richiamare le tradizioni antiche di origine romana, ovvero i riti delle Februe (da cui deriva il nome del mese) e dei Lupercali; nell’arazzo sono raffigurati uomini che preparano e usano le torce/fiaccole utilizzate in questi riti, la loro somiglianza con quelle della ‘ndocciata di Agnone è strabiliante.

Marzo a Aprile sono raffigurazioni simboliche un po’ ovunque. Marzo soffia, e non suona, nel corno perché non siamo ad una battuta di caccia; il personaggio non soffia nell’olifante perché si tratta di un semplice corno bovino; non ha neppure riferimenti alla mitologia classica perché non assomiglia ad Eolo, che non usa il corno, come fa invece questo Marzo al pari di un megafono. Il Nostro si differenzia da altri colleghi avendo rappresentato il mese su una barca, forse per enfatizzare meglio il vento che gonfia le vele e agita le acque. Aprile è il mese di apertura della primavera tanto che ad Atene era detto “dei fiori”, oppure l’immagine si rifà a Tellus la Terra, nei panni di una giovane donna dall’aspetto regale (come a Perugia, mentre ad Otranto la si vede a maggio). In alcune località (Bobbio, Piacenza) il personaggio non si limita a tenere in mano dei fiori recisi, ma i rami fioriti di una pianticella, col significato che l’uomo controlla la vita delle piante.

Maggio va a caccia col falcone, una prerogativa non solo maschile ma anche femminile come  a Perugia, Masnago (nella Sala degli Svaghi)  e  Mesocco. Ovviamente tale tipo di attività venatoria spetta ai nobili, inoltre a loro è dedicato il personaggio che in questo mese offre il fiore all’amata (Lucca, Roma). Negli arazzi Trivulzio il committente è raffigurato col falcone nel mese di settembre;  interessante la scelta operata in questo mese, si vede la raccolta delle ciliegie e in primo piano sono stati sistemati diversi attrezzi da lavoro dei contadini (ranze, rastrelli, forche e vanghe).

Con Giugno l’attenzione torna ai lavori agricoli e ai contadini: il taglio alto della spiga di frumento consente di lasciare più stoppie per nutrire il bestiame e per la concimazione del campo, fatta salva la rotazione delle colture. Non è detto che le spighe raffigurate siano quelle del frumento, allora si usava anche l’avena, il miglio e la segale, infatti a secondo del grano si otteneva il pane bianco per i nobili e il pane nero per gli altri.

A Luglio si ha la trebbiatura che avveniva sostanzialmente in due modi: il contadino batteva le spighe con uno strumento detto correggiato (come negli arazzi Trivulzio) oppure si utilizzavano i cavalli che trascinavano sulle spighe una trave di legno (Ferrara, Parma). A Palagnedra vediamo la scena non in un quadrato ma in un rettangolo perché i contadini sono due, non è ben chiaro se entrambi siano intenti alla battitura, oppure se uno usa il correggiato e l’altro separa la pula dal grano (vedi Perugia). Il Nostro avrà sicuramente assistito di persona a questa operazione, forse già a Tradate, che nel suo stemma riporta spighe di cereali a ricordare questa diffusa coltivazione.

Ad Agosto ci viene proposto un personaggio singolare, non si tratta di un’attività umana ma di uno stato fisico, una malattia estiva particolare. Questa soluzione è presente solo a Palagnedra, a Ronco, a Mesocco e a Roma oltre che in miniature di varia provenienza; la fonte non è facilmente individuabile, anche se nel Trattato dei mesi, Bonvesin da Riva presenta Agosto “infermizo”; bisognerebbe capire qual è stata la fonte dello scrittore milanese per poter formulare ipotesi fondate sull’origine di tale situazione.  Un’ipotesi potrebbe essere la seguente: l’etimologia del mese deriva dal titolo di Augusto conferito nel 27 a.C. a Gaio Giulio Cesare Ottaviano, poi il Senato nell’8 a.C. gli dedicò il sesto mese a partire da marzo;  siccome Svetonio scrisse che Augusto aveva una salute malferma, Bonvesin deve aver perciò riversato lo stato di salute del sovrano al mese che lo ricorda.  Tale ipotesi sarebbe più fondata se non ci fosse l’esempio di Roma, dove è poco probabile che le opere di Bonvesin fossero conosciute, tuttavia costui attinse a opere precedenti.  Sembra isolata l’ipotesi  del linguista Dante Olivieri, secondo cui agosto  era consacrato agli àuguri (o aruspici), coloro che facevano previsioni, forse facendo riferimento a una frase di Ennio: <<Dopo che l’illustre Roma venne fondata sotto augusti auspici>>. Grazie agli arazzi Trivulzio veniamo a conoscere che le angurie erano già sulle mense, dei nobili.

A Settembre si preparano le botti per il vino: questo lavoro è affidato ad artigiani specializzati perché il taglio delle doghe di legno non è semplice; l’artigiano è sia falegname che fabbro dovendo usare il ferro per i cerchi, oltre a saper scegliere il legno giusto (rovere o farnia, altrimenti castagno o acero), spetta poi al contadino far sì che l’interno sia sempre pulito per l’uso alimentare. A Ronco il Nostro inserisce anche una cesta piena d’uva per completare l’idea della lavorazione vinicola.

A rappresentare il mese di Ottobre c’è la raccolta delle castagne (poco visibile a Palagnedra, ma molto chiara a Ronco, a Mesocco e a Fara Novarese). Nell’economia dell’epoca le castagne avevano una parte importante, per cui dedicare a loro un mese è stato inevitabile: nel 1477 un medico sabaudo elogiava la dieta montanara costituita da castagne, latte e latticini; 10 anni dopo a Parigi le castagne di Lombardia erano ritenute ottime, anche perché la farina di castagne sostituiva quelle dei cereali  nei periodi di carestia e potendo essere ricavata in casa non era soggetta a tasse. Il suo valore nutrizionale è pari a quello del riso e del frumento; tra le qualità di castagne ci sono l’Agostana e l’Invernizza, ovvero la precoce e la tardiva. L’operazione veniva eseguita dal contadino stesso con l’aiuto di una lunga pertica dall’estremità ricurva, da notare a Ronco come il personaggio abbia i piedi quasi oltre il bordo del precipizio e non indossa particolari calzari, sembra quindi senza difesa verso i ricci che custodiscono i frutti. Non si può dire con certezza che Antonio abbia visto di persona la raccolta delle castagne nei boschi di Tradate perché di quell’epoca non conosciamo la qualità delle piante presenti, bisognerebbe poter disporre di atti notarili relativi a contratti agrari. Gli arazzi Trivulzio presentano un’attività mai contemplata negli altri calendari, ovvero la riscossione dei frutti secondo quanto prevedevano i contratti agrari: i contadini convergono nella casa di campagna del padrone e il fattore li accoglie con un registro dove annoterà quanto ognuno di loro ha consegnato; oltre ai recipienti con i frutti si vedono anche dei contenitori cilindrici in legno che erano l’unità di misura dei cereali, ovvero la mina.

Anche il mese di Novembre è poco leggibile a Palagnedra, ci soccorre quindi la versione di Ronco: il contadino ha una gerla sulle spalle dove ripone quanto va cercando nei campi con l’aiuto di un rastrello, utilizzato per sistemare le zolle. Non è chiaro se si tratta di cavoli rape (sedano rapa o rutabaga o barbabietola) (come a Parma, Arezzo), cavoli verze o rafani. Negli arazzi Trivulzio si dà spazio a lavori artigianali come la lavorazione del legno e del lino.

A Palagnedra l’ultimo mese manca perché al suo posto si demolì la parete per ricavare una porta, bisogna perciò passare a Ronco (v foto). Dicembre è il mese dedicato all’uccisione del maiale, a Mesocco invece tale operazione è anticipata a novembre perché a dicembre si macella il bue. Come si sa del maiale non si butta via niente, anche il sangue viene raccolto come se fosse importante reliquia per ottenere il sanguinaccio, che insieme a salsicce e salami, è ritratto nel mese di gennaio.

 

Gianpaolo Cisotto

 

 

[1] Mi riferisco ad Antonio Sgarbossa e all’arch. Guglielmo Giani.

[2] Ovvero una scultura raffigurante un giovane intento a togliersi una spina dal piede.

[3] Autore di un’opera letteraria satirica in cui i mesi dell’anno si ribellano al predominio di Gennaio, ma poi alla fine tutto torna come prima. Un ottimo commento si trova in Felix olim Lombardia edito a Milano nel 1978.

[4] Cappella del V secolo annessa alla basilica di S. Lorenzo.

[5] Specialmente nell’esemplare conservato a Vienna.

[6] Anche Masolino a Castiglione la applica, ma solo per imitare quanto aveva fatto il suo più illustre e giovane collaboratore Masaccio.